martedì 4 marzo 2008

Architecture is first of all thought


Un mio collega architetto (e pittore meraviglioso, sono suoi i meravigliosi disegni a mano), Alberto Bertini, mi ha contattato con questa (s)commessa. Un suo cliente aveva da realizzare una officina da fabbro all'interno del comprensorio carcerario di Asti. Non era il primo intervento di questo genere, teso ad integrare la riabilitazione degli ospiti (training in un mestiere) ad una sana convenienza economica (mano d'opera convenzionata), realizzato dal cliente. Interventi di questo tipo sono condannati però ad una schiacciante logica economica, che condiziona le scelte realizzative a tipologie costruttive temporanee (TENDE), e ad appalto a ribasso.

Tutte questo realizzando ambienti sicuramente NON brutti, ma qualitativamente inadeguati. Ad Asti fa caldo d'estate, freddo d'inverno, e per lunghe permanenze in presenza di attività rumorose, le qualità acustiche della tenda sono alienanti.
Mio collega muoriva dalla voglia di fare di più, dal desiderio che si facesse di più, che si facesse una vera architettura, ed è stato generoso nel coinvolgermi. Mi ha messo dunque in concorrenza con una tenda.

Quello che serviva dunque era un pensiero strategico.

L'obiettivo era di fare architettura, e non semplicemente una costruzione.
Questo significa, che se deve funzionare, deve assolvere molteplici funzioni, e per molteplici soggetti: non solo i committenti, non solo gli utenti, o i beneficiari, ma anche la società, la cultura, l'architetto! La differenza fra mangiare e desinare, insomma...


Inoltre, per essere architettura, tutte le sue fasi (dall'idea, al progetto, al cantiere, all'oggetto stesso) non potevano sottrarsi da quel minimo di autoreferenzialità e consapevolezza, insito di qualsiasi oggetto artistico e non meramente tecnico, capace di proiettare l'oggetto dall'ambito dei significati nella sfera del senso. Vi deve essere almeno uno spazio, per quanto piccolo cmq essenziale, per l'esercizio di scelta. Questo non significa desiderio di forma, sebbene lo comprenda.

Questi sono i desideri, e ogni e qualsiasi attività sincera e veritiera dello spirito accede, anche se solo inizialmente, al desiderio: perché il desiderio è embrione della volontà.

Ancora una volta, è la formulazione del problema che ha portato alla soluzione. Il problema, per riuscire ad esaudire tutti i desideri, doveva porre condizioni parallele, muoversi in diverse direzioni contemporaneamente. E ancora una volta sono stati i vincoli a fare da legante, a rendere "concreti" i desideri, e a fornire criteri decisionali al progetto.

In questo caso il vincolo principale, quello economico, conduceva le danze. I costi principali sono quasi sempre il materiale (il lavoro incide per circa il 30% del costo di realizzazione, e la ottimizzazione del lavoro richiede interventi e innovazioni di processo, raramente possibili nel singolo intervento). La concorrenza della tenda imponeva scarnificare gli elementi ai suoi termini minimi. Quindi:

  • fondazioni a platea, in modo che fossero già piano di lavoro con armatura semplice. Essa sfruttava i tombini esistenti per eventuali scarichi, e presentava un vantaggio aggiuntivo: Per motivi di tempi di realizzazione, non era possibile un iter burocratico completo per la richiesta di una struttura permanente. Dunque la struttura, sebbene progettata con criteri di sicurezza di una struttura permanente, doveva risultare rimovibile, almeno teoricamente. La eventuale rimozione avrebbe esposto la platea, che comunque avrebbe continuato a fungere da piazzale funzionale.
  • Struttura in ferro: Sebbene il materiale di base è più costoso, esso è componibile (quindi con trasporti più economici), lavorabile dagli stessi ospiti, e smontabile. Qui noterete inoltre un legame semico con la destinazione finale.
  • Tipologia strutturale. Questo, assieme al ragionamento sul tamponamento, è il colpo d'ala, che trasforma l'oggetto da un capannone in un oggetto di architettura. Il ragionamento era il seguente. Un costo importante dei capannoni è costituito dalle travi a grandi luci. Se si fosse adottata una tipologia corrente per i capannoni, con orditura strutturale trasversale, non solo sarebbero stati inevitabili, ma anche numerosi.

  • Definendo bene però il problema specifico di questo capannone (e non un altro), tenendo conto cioé (1) delle tipologie di oggetti realizzati al suo interno (piccoli oggetti di arredo urbano, per cui non serviva carro ponte e bastava un muletto) (2) ragionando sulla distribuzione delle funzioni, compresa la logistica, magazzino a cielo aperto (richiesto specificatamente dal committente), si poteva valutare come accettabile la presenza di un (1 di numero) pilastro all'interno dell'area di lavorazione, che anzi poteva essere utile come appoggio per prese di corrente, quadri ecc, oppure per proteggere pluviali (tombini esistenti all'interno dell'area di lavorazione).
ruotando quindi la struttura in senso longitudinale, era possibile ridurre l'utlizzo di travi a grandi luci ad UNA


  • tamponamento: Per ridurre ulteriormente i costi, bisognava ridurre il numero di lavorazioni a quelle strettamente necessarie ed essenziali (quindi se possibile far coincidere il rustico al finito). L'intuizione immediata (coadiuvata da alcune realizzazioni di pelli continue in poliuretano) è stata: Il capannone è una capanna grande, è un tetto con qualche aggiunta. esso serve per escludere gli agenti non sempre benigni del cielo. Un tetto, a parte struttura, è impermeabilizzazione, coibentazione, e finitura. Un costo significativo è costituito dal manto e dalla lattoneria, che secondo me erano dispensabili. Questa la strategia. Mentre l'impermeabilizzazione garantisce la funzione primaria del tetto, e quindi costituisce un suo elemento costitutivo. Quindi: lasciare il capannone finito con la sola impermeabilizzazione, e far coincidere la coibentazione termica (meglio se anche acustica) al supporto del "manto" definitivo. Eraclit o celenit (che in alcune sue forniture ha la rigidezza sufficiente a rendere praticabile, dunque realizzabile, il tetto) come supporto, e per la finitura: o bitume (bella la bestia nera di vulcano, oppure spruzzata di sabbie colorate per decorare), oppure tegole canandesi (le varie colorazioni permettevano la realizzazione di un pesce magico iridescente, con richiami di Tagliabue). Il poliuretano è stato scartato perché troppo esotico, dunque più costoso.
Ciascuna di queste soluzioni avrebbe permesso di coprire in modo monolitico o cmq continuo tutte le discontinuità di materiale sottostante, permettendo di raccordare le lastre di internet con mezzi di fortuna (per esempio, tubi di gebernit tagliati in quarti), creando naturalmente le "canaline" di raccolta e permettendo di sfruttare le pendenze "pettinate" (è una mia firma), anche a lunghe distanze.

Un mio assistente - che avendo tutto il contenuto del mio server in backup mi ricatta per condividere la firma di questo progetto (non avendone di suoi) a costo di rifiutare di riconoscere formalemente e legalmente attraverso accordo scritto i diritti su ben altri progetti - ha avuto la fortuna di trovare per caso su internet un material interessante. Il derbigum, un bitume a rotoli accoppiato con strato bianco, e applicato a fiamma o incollato. Questo il suo unico merito, il culo, ma tant'è...

Che una balena bianca sia!

Il risultato di questi ragionamenti, è una forma che ricorda da vicino la tradizionale configurazione a shed, ma non lo è (proprietà contrastandard di Walton)

Habemus architecturam....

Il referente del cliente era entusiasta, il direttore del carcere estasiato, i fornitori hanno chiesto favori ai produttori e ai trasportatori. Ma a 230 €/mq, costava comunque troppo.

Pensiamoci.

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